Di chi resta e di chi parte

 

Nessuna delle due è geniale ma una è comunque partita e l’altra è restata.

C’erano una volta i telefoni lenti, quelli che richiedevano dai dieci ai quindici secondi per comporre il numero. Allora potevi anche pensarci un po’ su, mentre la rotella scorreva, se davvero volevi parlare con quella persona (chissà quante volte abbiamo riappeso la cornetta), soprattutto se c’erano molti otto e nove.

C’era sempre una sedia accanto ad ogni apparecchio.

Allora Chiara non era mai uscita dall’Europa da sola, anzi, non era mai uscita dall’Italia senza la sua famiglia. Io ero andata un mese in Africa l’anno precedente, ma lei no, lei non voleva partire perché temeva di sentire la mancanza della sua famiglia e dei pranzi del sabato che si tenevano rigorosamente ogni settimana a casa della nonna.

Avevamo 19 anni. La cosa bizzarra è che io avevo una gran voglia di andare in giro per il mondo e lei di restare. Io non ho mai girato il mondo e lei ha vissuto anni all’estero. Come è successo? Tutto è iniziato in seguito al suo primo viaggio, organizzato quasi per caso da una sua compagna di università che le compilò quasi a caso i documenti per l’Erasmus, e, indovinate un po’, venne selezionata. Beh, non che saltasse di gioia, ma che fai? Rinunci? Così si decise che avrebbe studiato per metà anno accademico all’università di Turku, in Finlandia, lontano dalla sua famiglia e dal sole.

“Pronto?”

“Buongiorno Claudia, sono la Valentina, potrei parlare con la Chiara?”

“CHIARAAAAA”

“SIIIII?”

“C’è LA VALE AL TELEFONOOOO. Arriva. State bene?”

“Sì, tutti bene”

“Salutami i tuoi”

“Certo. Grazie”

Sapevo che era intenta a fare le valigie per partire. Sarebbe stata via sei mesi. Sei lunghissimi mesi senza la mia più cara amica. Un inverno intero, un vero inverno.

“Pronti!”

“Ciao! Come sei messa con le valigie?”

“Mah, diciamo bene, io e mia sorella ci stiamo dividendo i vestiti”

Quello sarebbe diventato una specie di rituale prima di ogni partenza per un nuovo viaggio: le due sorelle, siccome condividevano il guardaroba, scandagliavano ogni indumento e decidevano chi delle due lo avrebbe utilizzato e così finché non si era assegnata l’ultima sciarpa, calza e mutanda.

“Volevo passarti a salutare…”

“Certo! Passa pure! Ma avrò parecchio da fare.”

“Non c’è problema, magari posso aiutarvi!”

Dopo meno di dieci minuti ero sotto casa sua. La vedo mentre ancora salgo le scale, anzi, vedo qualcosa che assomiglia a Chiara, ma molto, molto più grande.

“Credi che mi faranno passare?”

“Chiara, non starai pensando di passare i controlli in quel modo!”

“Si vede molto?”

“Sembri la caricatura di te stessa”

“Ma non ho più spazio in valigia…”

È un gran peccato che non ci fossero i cellulari perché non ci avrei messo dieci secondi a postarla sui social. Chiara aveva indossato TUTTO ciò che non era riuscita a infilare nei bagagli.

La nuova giacca in gore-tex, acquistata per l’occasione, aveva quattro bei tasconi interni sul petto che erano gonfi di calze, mutande, canottiere e perfino cassette per ascoltare la musica. I maglioni, oltre che stratificati sul corpo, erano anche legati in vita, uno sopra all’altro. Mettete due gambe a una botte e sarete quasi arrivati all’immagine che mi propose davanti quel pomeriggio.

“Ma riesci a muovere le braccia?”

“Poco… dici che se ne accorgano?”

“Chiara, sei deforme, secondo me non passi…”

Contro ogni mia previsione la fecero passare. Ma erano altri tempi, quelli.